AUSCHWITZ

Il 27 gennaio 2022 si è celebrata la Giornata della Memoria. Gli anni scorsi abbiamo sempre cercato di portare gli studenti a teatro, dopo una camminata insieme fino alla sala dell’auditorium. Era un momento aggregativo, di svago, prima dell’emozione intensa e inaspettata che lasciano le storie che arrivavano dal palcoscenico e nel cammino di ritorno, al freddo, si commentava lo spettacolo, si ponevano domande, si sdrammatizzava. Perché quelle storie rimanevano tutte nello stomaco ed era difficile digerirle. 

Quest’anno abbiamo dovuto lavorare in classe, vedere un film, su uno schermo da cui ormai siamo assuefatti. E’ stato diverso.

Il giorno dopo mi sono trovata a discutere con una classe del perché si fossero annoiati, perché avessero fatto perdere la pazienza ad un collega. Li ho fatti uscire dai banchi, posare i telefoni,  mettere le sedie in cerchio e ne abbiamo parlato. 

Le contestazioni erano: “Sappiamo già come va a finire, ci sono vittime delle guerre anche oggi e non se ne parla, ne parliamo tutti gli anni, cosa ci serve, questi film annoiano.”

Non tutti, sia chiaro. Alcuni si dissociavano dalle affermazioni dei compagni. In realtà un po’ li capivo. La mia affermazione che li ha stupiti di più è stata che anche a me questi film non piacciono. Non per la noia, però. Perché mi fanno stare male. Loro sono iperstimolati dai social, dalle serie tv, con trame studiate per tenerli incollati allo schermo, con ritmi velocissimi, con la suspance. Invece la storia della Shoah è noiosa e banale. 

La banalità del male, l’ha definita Hannah Arendt. Quello che ho cercato di spiegar loro è che nella realtà il male non è così affascinante come nei film. Nel caso del nazifascismo, il percorso non è stato veloce, immediato, altrimenti le persone come me e come loro, se ne sarebbero accorte, si sarebbero opposte e ribellate. Invece per rendere possibile che accadesse lo sterminio di tanta gente, il percorso è stato lento, una legge dopo l’altra, un divieto dopo l’altro, un’ingiustizia dopo l’altra. Non casuale, ma programmata. 

Da esseri umani contro altri esseri umani. Nei film ciò che li annoia sono quei tempi lunghi e lenti in cui le persone dovevano rimanere nascoste. Ho cercato di spiegare quanto fosse logorante, difficile, far stare zitti dei bambini in uno scantinato, i dilemmi etici di chi rischiava la propria incolumità per salvare la vita di qualcun altro. La banalità di uno sparo a bruciapelo in una strada o dopo una arbitraria scelta, se andare a destra o a sinistra davanti ad un muro. Il senso della giornata della Memoria, per me è acquisire la consapevolezza che in ognuno di noi c’è una parte di bene e una di male. 

Non è sentirsi lontani da quei fatti, ma sapere che potrebbero ricapitare, che in molte parti del mondo capitano cose simili ancora adesso e, o telegiornali non ne parlano, o se lo fanno tra la pubblicità di un digestivo e lo scoop dell’ultimo attore di turno, il nostro animo non ne coglie la gravità, non si scandalizza. 

Uno dei momenti più scioccanti della mia vita è stato quando ho varcato i cancelli di Auschwitz e mi sono resa conto che ERA SUCCESSO DAVVERO. 

Che quelle cose lette per l’interrogazione di storia o quelle scene in cui ero incappata per caso in qualche romano di Ken Follet letto sotto l’ombrellone, erano accadute lì, sotto i miei piedi. Quando otto anni fa degli amici ci hanno proposto il viaggio in Polonia e Repubblica Ceca, ero scettica. Ignoravo totalmente le bellezze di Praga e Cracovia, le associavo all’architettura sovietica e alla povertà contadina. Nella mia mente aleggiavano degli stereotipi, dovuti ad ignoranza, che sono stata contenta di abbattere, camminando per le piazze, ammirando i palazzi, leggendone la storia e assaggiando i cibi tipici. A Cracovia siamo scesi nelle profondità della terra per ammirare le miniere di sale di Wieliczka, con le loro immense sale e le statue di cristalli intagliate dai minatori. 

Il ricordo che però conserverò nel cuore sarà quello dei campi di concentramento, come una piccola scheggia sottopelle che ogni volta che sfiori ti manda un impulso di dolore al cervello. Una cosa che tendi a dimenticare, ma che rimane lì e non smette di fare male. Perché sapere di non averlo vissuto ci deve rendere grati. Perché dobbiamo essere consapevoli che però è accaduto, a noi italiani, che fa parte della nostra storia, che tra poco non ci saranno più persone in grado di raccontarlo dal vivo, ma non ci possiamo permettere di non conoscere. 

Benigni nel suo monologo sulla Costituzione afferma che certe cose si possono dimenticare, a patto di conoscerle. Un volta all’anno è doveroso sfiorare quella cicatrice, dedicare un pochino del nostro tempo per un film, un libro, una riflessione, per ripartire da quello, per ricordarci che niente di vagamente simile dovrebbe accadere, in nessuna parte del mondo, a nessuno, per nessun motivo politico e ideologico. Solo allora potremo considerarci davvero evoluti. 

Ero partita con l’idea di scrivere cosa abbiamo visto nel museo di Auschwitz e a Birkenau, ma credo lo sappiate tutti o facciate presto a scoprirlo.

Sappiate che nessuna immagine vi turberà come essere lì, vedere quei capelli tagliati, 

quelle valigie, quel paio di scarpine, gli occhiali. La stanza dei giochi. Niente. 

E’ un viaggio che tutti dovrebbero compiere una volta nella vita, per vedere l’abisso e poter risalire a cercare il sole.

Dove eravamo

5/5

Di dove siamo

Micky

Micky è sempre stata una bambina curiosa e chiacchierona, è cresciuta in mezzo ai libri, considerati non come oggetti di arredamento, ma come “passaporte” verso mondi fantastici reali o immaginari. Grazie agli insegnamenti di nonni, genitori e maestri, ha conservato la voglia di frugare tra le pagine per cercare aneddoti e curiosità, e ora che è troppo grande per sedersi in braccio a chi le vuol bene per ascoltarne i racconti, ha deciso di ricoprire lei questo ruolo.
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